In occassione della giornata della memoria per le vittime delle foibe
sono nate delle polemiche, volte a mettere in contrapposizione il
ricordo dei martiri delle foibe con i morti per le rappresagli
nazifasciste o per le morti tra i partigiani. Come se la storia fosse una coperta corta e non si potesse ricordare le une e le altre.
Tutte le morti vanno ricordate: tra l'altro gli infoibati non sono le
vittime dei partigiani, ma per saperlo occorre che delle foibe si parli.
Così come delle morti vittime della furia nazista. Mi sono allora
riletto il libro “La resa dei conti” – di Gianni Oliva Mondadori ed. (su Amazon), per rinfrescarmi la memoria.
Nella seconda guerra mondiale si contrappongono due progetti: quello
nazista che voleva ridisegnare l'Europa secondo una gerarchia di razze e
stabilire quali popoli avevano diritto alla cittadinanza del mondo e
quali no. L'altro era quallo degli alleati, che perseguivano obbietivi
sociali e politici diversi ma trovarono nella lotta al nazismo un
denominatore comune. Al di là di qualsiaisi considerazione sui percorsi
individuali dei combattenti, non si può dimenticare che le
formazioni partigiane e le forze regolari del Regno del sud stavano
dalla parte degli alleati, mentre il fascismo di Salò stava dalla parte
di Hitler. Questo resta il dato storico di fondo, la “memoria”
che è compito della ricerca approfondire, fissare e tramandare. Cosa
succede nel periodo 1944-1945: accade la “resa dei conti”, contro i
fascisti e con il fascismo; con i seviziatori, i collaborazionisti, le
spie; resa dei conti contro le rappresaglie e le violenze; più in
generale, resa dei conti contro un passato da cancellare. Il prezzo sono
circa 20000 morti conteggiando insieme le vittime della giustizia insurrezionale e le vittime della repressione titoista.
Il volume di Gianni Oliva individua tre fenomeni, diversi tra loro
per natura e diffusione geografica: il furore popolare di piazzale
Loreto, riprodotto in tante piazze e piccoli borghi; la giustizia dei
giorni insurrezionali, con le esecuzioni sommarie e le sentenze dei
tribunali popolari; le foibe della regione giuliana, con l'eliminazione
di coloro che si oppngono al comunismoe alla politica annessionistica
della Jugoslavia di Tito.
Il primo fenomeno è il più noto: i cadaveri di Mussolini, della Petacci e dei gerarchi fucilati a Dongo, esposti a piazzale Loreto,
nello stesso luogo dove un anno prima sono stati uccisi per
rappresaglia 15 antifascisti. Davanti a quello spettacolo, il furore
della folla milanese esprime nella foma più ruvida tutte le
esasperazioni ereditate dall'esperienza precedente: ci sono le
sofferenze per i lutti, per le distruzioni per la fame; c'è la
consuetudine della violenza introdotta dalla guerra civile; c'è la
rabbia per i prezzi pagati, il dolore di chi ha perso il figlio al
fronte, la disperazione di chi è rimasto solo. L'onnipotenza sconfitta è
uno spettacolo ripratore che giunge ad invertire le posizioni
precedenti, ribaltando il contrasto tra la sofferenza tra chi ubbidiva e
la privilegiata sicurezza di chi comandava. E, ancora, è uno spettacolo
liberatore: calpestando l'idolo si calpesta l'idolatria e ci si assolve
dall'essere stati idolatri.
Il secondo fenomeno, la giustizia insurezionale
porta, nei giorni della liberazione a far passare per le armi un numero
significativo di persone: si tratta di militi fascisti, di individui
accusati di essere collaboratori o spie degli occupanti, di esponenti
del regime di Salò; in alcuni casi si tratta di capisquadra o di
dirigenti di fabbrica eliminati in una logica di guerra di classe; in
altri casi, sporadici, di persone di persone eliminate per motivi
personali. Da una guerra civile non si esce con una semplice resa degli
sconfitti: ci sono le violenze del 1921-22, i civili uccisi per
rappresaglia o deportati nei lager. Ci sono i conti del passato: le
manganellate e l'olio di ricino degli squadristi, la retorica arrogante
del regime che ha portato alla guerra, i morti al fronte o internati in
Germania, le distruzioni per i bombardamenti. Dietro queste motivazioni
ci sono anche variabili di tipo politico: la volontà di rinnovamento del
movimento resistenziale del Nord devono misurarsi con gli equilibri
generali nei quali intervengono le autorità militari angloamericane, il
governo di Roma, le formazioni politiche moderate. Sul problema
dell'epurazione , nell'Italia liberata c'è stato un confronto più
serrato, conclusosi con la crisi del primo governo Bonomi e la
formazione di un nuovo ministero dal quale sono escluse le forze
socialiste e azioniste. Tutto ciò ingenera negli ambienti resistenziali,
e in particolare nelle forze comuniste, la convinzione che occorra far
presto: ciò che rarà possibile realizzare, in termini di contropotere e
di epurazione, è legato alla rapidità con cui il movimento partigiano
saprà sfruttare il crollo tedesco, insorgendo e occupando le città prima
dell'arrivo delle divisioni alleate. Gli stessi comandi alleati
ritengono che un'ondata epurativa, tomultuosa ma rapida, sia lo sfogo
necessario per appagare le aspettative di giustizia dei combattenti ed
evitare le attese di un'attesa frustrata. La documentazione conservata
negli archivi britannici permettono una quantificazione precisa del
numero dei morti: circa 10000, tra Veneto, Lombardia, Emilia, Liguria e
Piemonte, la maggior parte eliminati nei giorni insurezionali.
Il terzo fenomeno è quello delle “foibe”, nella
regione giuliana. Sono fenditure, profonde anche decine di metri, che si
aprono sul fondo di una depressione del terreno, e che l'erosione
millenaria delle acque ha scavato nella spugna della roccia in forme
gigantesche e tortuose. Qui al termine della guerra, sono stati gettati i
cadaveri di migliaia di persone eliminate per motivi politici. Le
spiegazioni del fenomeno portano ad una duplice realtà: da un lato la
politica di forzata italianizzazione perseguita dal fascismo nell'Istria
durante il ventennio; dall'altro la politica espansionistica di Tito e
l'ambizione di annettere alla nuova Jugoslavia comunista non solo
l'Istria, ma anche Trieste e il goriziano. Nella primavera del 1945,
quando le trutte titoiste occupano Trieste prima degli americani, si
scatena una repressione nella quale si mescolano risentimenti nazionali e
volontà epurativa politica. Ufficialmente, ad essere incriminati sono
criminali di guerra ed esponenti fascisti: di fatto la repressione
colpisce tutti gli esponenti anticomunisti, indipendentemente dalle loro
corresponsabilità col regime. Perchè al tavolo delle trattative venga
riconosciuta la sovranità di Belgrado sul territorio giuliano, occorre che nessuna forma di opposizione contrasti l'annessione.
Per fare questo è necessario eliminare le persone che possono guidare
un movimento antiannessionistico, impedire che si affermino autorità
italiane antifasciste capaci di legittimarsi come tali davanti agli
occhi degli alleati. L'epurazione politica si intreccia con i contrasti
all'interno del movimento resistenziale italiano, di cui pochi mesi
prima è stata espressione drammatica la strage di Porzus, con le
ambiguità di Togliatti e del gruppo dirigente del PCI rispetto alla
definizione del confine, con la memoria delle stragi compiute in Istria
nel settembre-ottobre del 43 dopo l'armistizio. Il risultato è un clima
di violenza, di sospetto e di accuse. La quantificazione delle vittime
ha dato luogo a polemiche: la cifra più sicura, anche in sede politica,
indica le vittime in 10-12000, numero che secondo i ricercatori
dell'Istituto friulano per il movimento di liberazione si raggiunge solo
conteggiando tra gli “infoibati” anche i morti e i dispersi in
combattimento in tutto il periodo 1943-45: la stima più credibile si
attesterebbe pertanto sull'ordine di 4-5000 vittime.
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